Politiche Giovanili

La guerra in Ucraina e i suoi risvolti sull’Europa

Intervista a Giuseppe Famà

La guerra in Ucraina è al centro delle notizie da ormai 2 mesi, ed il mondo sta partecipando a un dibattito costante, su responsabilità, colpe e strategie. E’ anche il primo conflitto a cui i millennials stanno assistendo in modo diretto.

Abbiamo intervistato Giuseppe Famà, Head of UE Affairs presso l’International Crisis Group, dove lavora dal 2018. Nel suo ruolo, Giuseppe dirige il lavoro e l’impegno di Crisis Group con l’UE, compresa l’analisi della politica estera, di sicurezza, di sviluppo e umanitaria dell’UE, i suoi sforzi di prevenzione dei conflitti e di risposta alle crisi, le iniziative di ricerca e le valutazioni sulle relazioni esterne dell’UE e la progettazione di strategie di advocacy con le istituzioni dell’UE, i suoi Stati membri e la comunità europea della pace e della sicurezza.

La crisi tra Ucraina e Russia è scoppiata, agli occhi di tutti, in modo improvviso. Quali sono secondo te le radici del conflitto? Esiste un “casus belli” chiaramente identificabile?

Qualunque sia il conflitto un casus belli ne riprende le logiche superficiali per nascondere spesso le cause profonde della violenza. Nel caso della guerra tra Russia e Ucraina, il momento cruciale che ha preceduto l’invasione è il discorso di Putin del 21 febbraio scorso, in cui il Presidente russo ha tratteggiato la sua narrazione di uno scontro più ampio, oltre l’Ucraina, con l’occidente e l’intero status quo in Europa. Quel momento ha anticipato il riconoscimento delle due “repubbliche” nel Donbas di Donetsk e Lugansk da parte della Duma, e indicato la via per la tragica invasione su larga scala del 24 febbraio.

Tuttavia questa guerra ha cause più profonde, che si sono sviluppate attorno il conflitto in Crimea e in Ucraina orientale dal 2014 (con le diverse interpretazioni che ne sono conseguite tra la Russia, l’Ucraina e le altre parti in causa) e, a un livello più profondo, l’insoddisfazione di Mosca per l’equilibrio del continente e la percezione di insicurezza di Mosca dal 2008 in avanti – l’anno della guerra in Georgia, che ha segnato l’acuirsi delle distanze tra Mosca, i paesi della UE e i loro partner occidentali.

Se l’Ucraina è un caso speciale per le attenzioni di Mosca, la genesi di questa guerra rivela anche come la Russia percepisca le relazioni di tutti paesi confinanti con le altre potenze – inclusi i paesi europei – come un gioco a somma zero che può scivolare in una minaccia esistenziale.

Questo conflitto è probabilmente il primo vero scontro militare in Europa al quale assistono i cosiddetti Millennials, e le generazioni nate dopo la caduta del Muro di Berlino. Come giudichi il loro approccio alla guerra, in termini di ricerca di informazioni e spirito critico?

Forse è quello di cui conserveremo una memoria più vivida. Io stesso ho qualche ricordo della guerra in Kosovo alla fine degli anni ’90, e siamo stati tutti testimoni indiretti tanto della guerra russo-georgiana quattordici anni fa, quanto del conflitto nel Donbas per gli ultimi otto anni. Ma oggi è diverso.

Ciò che preoccupa maggiormente in questo conflitto è certamente la proporzione, che pone una delle maggiori potenze mondiali, la seconda potenza militare, uno stato nucleare, in rotta di collisione con l’Unione Europea, incluso il nostro paese, e i nostri alleati. A differenza della Georgia e dell’occupazione della Crimea, questa volta abbiamo assistito a colonne di carri armati sfilare al confine dell’Unione.

E in questo si scopre una differenza generazionale nella percezione di questa guerra. I giovani, molto più che le generazioni precedenti, sentono la minaccia verso i paesi UE ad est molto più vicina a loro stessi. Chi ha vissuto con il mondo diviso dalla cortina di ferro, ha sperimentato delle fasi in cui l’occidente è rimasto estraneo agli atti di forza in Europa orientale. Per la “generazione Erasmus” è l’opposto.

Tuttavia, mentre le nostre generazioni dimostrano una grandissima solidarietà verso l’Ucraina, esiste anche una difficoltà generale a superare la polarizzazione del dibattito pubblico per guardare alle piste di intervento che potrebbero permettere di avanzare verso una risoluzione.

Consumare informazione veloce e di carattere generale con dei medium che non favoriscono l’approfondimento – un’abitudine diffusa nella nostra generazione – non aiuta a sviluppare una lettura critica, lasciando tutt’al più una serie di informazioni. Soprattutto in un conflitto di questa complessità, l’informazione è nulla senza comprensione.

 

Noi ci possiamo definire colleghi di università, in quanto entrambi abbiamo studiato Scienze Internazionali e Diplomatiche a Forlì, Università di Bologna. Tu che hai viaggiato nel mondo e ti sei confrontato con esperti di molte nazioni, hai percepito la qualità dell’istruzione superiore italiana?

Credo che l’Italia non abbia molto da invidiare per la qualità dell’istruzione superiore. Né io né i tanti amici e colleghi come te ci siamo mai percepiti come vittime di un’educazione deficitaria. Anzi. A parte delle aree che sono meno curate nel nostro sistema universitario – come la scrittura e l’autonomia di elaborazione – credo che abbiamo generalmente una preparazione molto completa. Ci sono dei problemi di risorse, di proporzione di studenti per docente, di finanziamenti alla ricerca e soprattutto di diritto allo studio. Ma reggiamo il confronto con il resto del mondo.

Esiste però un serio problema nella qualità del dibattito pubblico e dell’informazione sui temi di politica estera e politica internazionale, e una tendenza ad affidarsi a fonti e risorse che non sono (o non sono più) qualitativamente rigorose, o a “esperti pigliatutto” che hanno una comprensione molto parziale di questi fenomeni. Questo è un problema urgente, perché oltre l’educazione tendiamo spesso a misurarci con un discorso e delle narrazioni che sono lontane dalla realtà e povere di contenuti. E dopo un lungo distacco dal confronto più rigoroso e approfondito, si diventa assuefatti e conformi ai battibecchi da saloon televisivi.

 

Alcuni studiosi parlano della crisi dell’Europa di fronte a questo conflitto, altri invece affermano che l’Europa si sia compattata con la crisi Covid e stia finalmente agendo con un unico fronte comune. Quali sono le tue opinioni al riguardo?

Poche entità politiche sono alternativamente demonizzate o deificate come l’Unione Europea. Qualunque cosa accada che possa riguardarla anche solo indirettamente, c’è sempre qualcuno pronto a cantarne la morte e qualcuno che si sforza di vederne il compimentoin ogni circostanza.

Io credo che l’UE fosse in un momento di grande difficoltà per le divese crisi degli anni `10 – la crisi finanziaria e i suoi postumi, la questione migratoria, la nuova ascesa dei nazionalismi dentro i paesi UE, l’uscita del Regno Unito. Ma come spesso accade nella storia, le crisi diventano dei momenti di grande accelerazione che fanno cadere riserve, tentennamenti e muri di orgoglio nazionale e, nel caso della UE, hanno permesso di trovare soluzioni comuni su una scala che nemmeno il più solido tra i 27 sarebbe riuscito a trovare da solo.

Mi riferisco alla capacità della UE di sostenere la produzione e l’acquisto collettivo dei vaccini – immaginate che costi se tutti avessero negoziato per conto proprio – l’emissione di titoli di debito comune e lo sforzo unitario del “recovery plan”, che ha già dato un sostegno essenziale al nostro paese, tra gli altri. Una reazione lontana dal gelo della risposta alla crisi greca, ad esempio.

Lo stesso vale per questa guerra. Finora, la risposta della UE è stata di una compattezza, volume e velocità praticamente senza precedenti. Ne ho scritto qui. Dalle sanzioni al coordinamento per la difesa, l’UE ha rotto dei tabù decennali e preso in una settimana decisioni dall’impatto proporzionalmente decuplicato rispetto a piccole iniziative che venivano dibattute per anni. Certo, il prolungarsi della crisi mostrerà anche le crepe del fronte europeo, ma sono certo che ricorderemo questo momento come un punto di svolta fondamentale per la politica estera e di sicurezza della UE. Non il punto di arrivo che sostengono alcuni, ma certamente un avanzamento molto importante.

 

Come ultima domanda, se dovessi dare un consiglio ai giovani per la loro carriera o per la loro formazione, quale sarebbe?

Studiare più di quanto abbia fatto io, misurarsi con questioni sempre più complesse e coltivare grandi progetti, essere ambiziosi per qualcosa che possa dare il più ampio beneficio per le nostre società. Bisogna ricominciare a pensare in grande e riscoprire l’arte di metterlo in pratica.

Le crisi degli anni scorsi hanno frustrato questo slancio per moltissime ragazze e moltissimi ragazzi. Spero invece che si torni a progettare come arrivare su Marte, come si costruisce la pace nella più intricata delle guerre, come si costruisce un modello sociale, economico e ambientale più giusto, come si produce una classe dirigente di valore. Ne abbiamo un bisogno disperato.